di Mario Adinolfi
Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse insieme a Renato Curcio, è morto l’11 aprile scorso ma la notizia è stata resa pubblica solo ieri. La trovate sui giornali di oggi, giornali zeppi di foto e cronache dei funerali del Papa che resteranno nella storia, talmente tante e grondanti di conseguenze sull’attualità del mondo intero che immaginavo che il povero Franceschini sarebbe stato relegato in una notarella nelle pagine interne. E invece non c’è quotidiano che non pubblichi l’articolone a paginata, corredato di più foto e con pezzi scritti nella tonalità di chi ricorda un nostrano Che Guevara. Sì perché Franceschini è considerato il “brigatista buono”, sempre contrapposto nella pubblicistica al “cattivo” Mario Moretti, contro cui peraltro Franceschini faceva aleggiare accuse di eterodirezione, raccontandolo come una sorta di infiltrato.
La verità la disse in una frase secca che lo racconta perfettamente: “Porto la responsabilità di aver insanguinato l’Italia”. Ed è andata proprio così. Franceschini ha fondato la più crudele organizzazione terroristica italiana degli Anni Settanta, l’ha indirizzata verso la lotta armata, ha organizzato il primo clamoroso sequestro di persona attuato dai brigatisti (quello violentissimo del giudice Mario Sossi, che rifiutò sempre di incontrarlo dopo la fine di quella terribile esperienza durata 35 giorni), è stato condannato per gli omicidi dei militanti missini padovani Giralucci e Mazzola del 1974, poi il generale Dalla Chiesa riuscì ad arrestarlo. Il giovane militante del Partito comunista che si trasformò in leader di una banda di assassini, in carcere continuò a fomentare la violenza brigatista rivendicando ogni azione omicidiaria compreso il sequestro Moro e la strage di via Fani, guidando l’area terroristica presente nelle galere italiane sotto il nome di Partito Guerriglia. E così Franceschini “il buono” organizzava rivolte, sosteneva ogni azione, giustificava ciascun assassinio in nome dello slogan sempre uguale: “Lo Stato si abbatte e non si cambia”.
Questo fino al 1982 quando capisce che a rimanere abbattute dalla cieca violenza che ha causato tanti morti e feriti sono state le stesse Brigate Rosse. Allora Franceschini con lo Stato si mette d’accordo, nel 1987 esce dal carcere in semilibertà, nel 1992 è tutto condonato: il fondatore delle Brigate Rosse è libero. Ovviamente seguono libri, interviste, continue glorificazioni pubbliche. Più sbiadiscono i nomi delle vittime delle Brigate Rosse, più diventano luminosi quelli suoi o di Renato Curcio, citato pure nelle canzoni. Non c’è nessuno che puntò mai il dito contro “Franceschini il buono”, solo una volta i familiari delle vittime di via Fani esasperati dall’averlo visto intervistato in tv proprio sul luogo della strage in pose pensose, espressero la loro indignazione. Intervenne il Quirinale per tranquillizzarle un po’.
Il suo libro più noto ha un titolo da Dolce Stilnovo: Mara, Renato ed io. La triade commemorata da tutti i cultori dell’epopea brigatista: Alberto Franceschini, Renato Curcio e la compagna Mara Cagol, fondatori nel 1970 delle Br. Ma non fu una compagnia di giovani rivoluzionari poetici, fu una banda di criminali privi di qualsiasi spessore e umanamente mediocri che uccise e giustificò ogni uccisione da parte dei propri affiliati in nome di un’ideologia totalmente priva di senso che toglieva dignità alla persona umana. Tra le vittime dei brigatisti il numero più alto è tra gli agenti delle forze dell’ordine, spesso giovani e giovanissimi come Giulio Rivera (23 anni), Raffaele Iozzino (24 anni), Francesco Zizzi (29 anni) uccisi in via Fani. Il giorno in cui morirono quei ragazzi, travolti vigliaccamente dalla marea di piombo delle mitragliette rosse, Alberto Franceschini esultò in carcere e rivendicò l’azione “di geometrica potenza” cantando l’Internazionale. Oggi che veniamo a sapere che è morto lui, nessuno giustamente esulta, prego per lui e penso alle vittime di quella violenza insensata di cui nessuno ricorda il nome, compresi quei tre ragazzi.
Leggo da Repubblica di oggi un articolo del 1992. Quando fu completamente scarcerato Franceschini disse: “Sapevo che in Italia c’è giustizia”. Aveva scontato dall’arresto meno di 14 anni di pena vera dietro le sbarre, più 4 di semilibertà, per aver fondato e diretto la più sanguinaria organizzazione terroristica della storia del nostro Paese. In qualsiasi altro Paese non sarebbe mai stato scarcerato, ma la verità è che in Italia giustizia non c’è se non contro i poveracci privi di amici nei giornali. Morto dopo 33 anni di piena libertà, leggo sempre da Repubblica di oggi che avrebbe detto: “Non ho rimpianti, rimorsi sì”. Non aveva ancora capito che i rimorsi erano stati causati da non aver rimpianto le scelte compiute, dall’adesione alla causa comunista in poi. Quello doveva essere il suo maggiore rimpianto, aver dissipato l’intera vita dietro un’ideologia che ovunque si è coperta di violenza e di morte. A causa di Alberto Franceschini, anche in Italia.