di Mario Adinolfi
Da settimane la mia quotidianità è inchiodata al policlinico Gemelli di Roma. Non chiedetemi dettagli, sono intimi e molto dolorosi, quando me ne sentirò capace ne scriverò. Però i 38 giorni di Francesco in questa struttura ospedaliera grande come una città me li sono fatti tutti e poi un pomeriggio è arrivato Zeman che non parla più per un’ischemia e un altro Sgarbi con la sua depressione e ad ogni ora macchine private e ambulanze varie scaricano persone afflitte da ogni tipo di male, spesso curabile, talvolta no. Mi sono ritrovato in un oceano di dolore con lo sguardo sulla statua di San Giovanni Paolo II attorniata dai media lì accampati e da migliaia di fedeli che son passati di lì lasciando un fiore o una preghiera in particolar modo per il Papa, in una struttura che cura tutti come cura un Papa. C’è la sofferenza pubblica dei personaggi pubblici e quella privata dei pazienti per niente noti, una moltitudine di cui si prendono cura oltre cinquemila persone tra medici e operatori sanitari dipendenti del policlinico intitolato a padre Agostino Gemelli.
Tra me che sono al quinto piano e l’appartamento papale che sta al decimo non vedo differenze. Totò dice che la morte è una livella e in fondo anche la sofferenza lo è. La mia esperienza ospedaliera occupa un letto attorno a cui prima della mia famiglia ha sofferto una famiglia rom. La stanza è condivisa con un vivace agglomerato che vive alla borgata Ottavia. Tutti uguali nel dolore, tutti analogamente trattati con coscienza e operosità dai sanitari, tutti appesi a speranze e con quella strana fiducia che pervade i sofferenti, pur nello stress infinito che talvolta esplode e fa piangere e gridare ma anche in quei momenti nessuno è lasciato solo.
Non credo che come italiani ci rendiamo conto del bene assoluto rappresentato dal nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN), di cui il Policlinico Gemelli di Roma fa parte ed è un’eccellenza. Io frequento ospedali da decenni e sempre per motivi piuttosto tragici, dalla depressione di mia sorella finita in suicidio alla malattia di mio padre con undici operazioni chirurgiche che hanno condotto alla sua morte, fino agli inevitabili acciacchi della mia anziana madre e ora con questa nuova condizione. Ho visto degradarsi l’intuizione del primo ministro donna del nostro Paese, la cattolica Tina Anselmi che quasi mezzo secolo fa istituì il SSN con il suo principio base: si curano tutti, senza alcuna distinzione e lo si fa gratuitamente. Chi lavora paga la sanità con le sue tasse, ma il servizio è universalistico e dunque copre chiunque sia sofferente. Ho avuto una figlia che in tempo di Covid ha dovuto affrontare il sistema sanitario australiano, io stesso ha vissuto ogni anno per molti mesi negli Stati Uniti, ebbene il servizio universalistico italiano è un unicum: un calcolo al rene che ti becca a Washington se non hai stipulato la relativa assicurazione sanitaria si rivela un’esperienza da incubo, in cui ai dolori lancinanti le strutture sanitarie offrono attenzione solo dopo aver strisciato la carta di credito per migliaia e migliaia di dollari. Se un americano squattrinato si sente male a Roma, in qualsiasi nostro pronto soccorso sarà curato immediatamente e gratuitamente.
Purtroppo il degrado del nostro SSN è visibile ai miei occhi di frequentatore abituale. L’ospedale dove sono nato io non esiste più, non esiste più neanche l’ospedale dove è nata la mia prima figlia. La sanità assorbe risorse crescenti ma le sacche di spreco sono immense, la gestione politica in alcune regioni è stata totalmente scellerata e corrotta, i buchi di bilancio non sembrano riassorbibili. Vivo la mia esperienza di dolore al Gemelli di Roma e so che se mi trovassi a Vibo Valentia non sarebbe la stessa cosa. Quindi c’è un primo gap, immediato e visibile, da colmare: quello geografico, la sanità meridionale in generale va salvata.
Poi c’è l’invecchiamento della popolazione che renderà sempre più vorace l’apparato sanitario se di tutti questi anziani vorremo prenderci cura. Anche per questo mi suona intollerabile sentire che spenderemo in armamenti 800 miliardi nei prossimi 5 anni. La salvaguardia del nostro sistema sanitario nazionale è la assoluta nostra priorità di spesa. Ma è mai possibile che mia madre per prenotare una tac total body ha una lista d’attesa di otto mesi? È un modo per indirizzarla alla sanità a pagamento. È possibile che le attese in pronto soccorso, se non arrivi in codice rosso, raramente siano inferiori alle dodici ore? L’investimento sul taglio delle liste d’attesa (dunque servono più dipendenti e più macchinari) e sull’efficienza dei pronto soccorso (ne stanno nascendo di privati a pagamento, 140 euro a prestazione, è una sperimentazione) è una priorità che viene mille volte prima di missili e bombe per far la guerra a chissà chi.
Non voglio fare un discorso di retorica spicciola, ma è un’esperienza che deriva ormai dalle cicatrici che ho addosso: se vogliamo una sanità che ancora si prenda cura con scienza e coscienza di un Papa come di un rom, di un politico come di uno sportivo, di un anziano solo come di un bimbo sfortunato, trattandoli tutti gratuitamente con un servizio universalista, dobbiamo pretendere insieme al taglio delle sacche di spreco e delle inefficienze della gestione politica corrotta, un serio investimento sul bene assoluto della società italiana che è il suo Servizio Sanitario Nazionale. Deve essere la priorità per tutti, altro che armi signora Von der Leyen.
Se perdessimo il SSN perderemmo un tesoro e, attenzione, noi la diamo per scontata ma ormai sia per la forte denatalità che per le ragioni che ho elencato la nostra sanità gratuita e universalista è oggettivamente a rischio. Questa colonna del nostro welfare potrebbe rapidamente sgretolarsi. Oggi spendiamo in sanità 130 miliardi di euro annui, dobbiamo assolutamente spostare sul SSN il punto e mezzo di Pil che il piano ReArm Europe vuole destinare a missili e bombe, dunque per quanto riguarda l’Italia si tratta di 36 miliardi di euro.
Noi non avremo mai un esercito più forte di quello americano o russo o cinese. Ma abbiamo senza dubbio un servizio sanitario migliore, l’unico che cura un capo di stato come l’ultimo degli zingari analogamente e gratuitamente nella stessa struttura, questo è il bene assoluto che dobbiamo difendere e su cui dobbiamo investire. A meno che non si voglia accettare la deriva canadese, belga, svizzera o olandese. La popolazione invecchia? Bene, ai sofferenti offriamo eutanasia o suicidio assistito erogati entro dodici giorni dalla richiesta. Nel XXI secolo (prima queste opzioni non erano neanche concepibili dalle normative) in quei quattro Paesi hanno soppresso centinaia di migliaia di malati di ogni tipo, dalle ventenni depresse agli anziani alle prese con la demenza. Hanno risparmiato molto non solo in sanità, ma anche in assistenza e previdenza. Il nostro servizio sanitario cura invece i malati di ogni tipo, giovani depressi e anziani dementi inclusi. Da noi è vietato usare le strutture sanitarie per sopprimere le persone.
Più attraverso la mia quotidianità in una struttura d’eccellenza come il Policlinico Gemelli, più guardo ogni giorno la brulicante moltitudine di sofferenti che lo affolla, più mi rendo conto che sarebbe da pazzi non lottare affinché questo bene assoluto che è la sanità pubblica italiana gratuita e universalista vada consegnato intatto e anzi possibilmente migliorato alla generazione dei nostri figli, per i quali è seriamente a rischio e le avvisaglie sono visibilissime. Insieme al comparto dell’istruzione, dell’assistenza e della previdenza a me pare chiarissimo che le colonne del nostro welfare vanno sgretolandosi. Eppure sento cianciare di spirito europeo e di manifesto di Ventotene, quando l’unica caratteristica che differenzia davvero l’Europa dal resto del mondo è proprio la consistenza del nostro welfare, una rete di protezione per ciascuno di noi che potrebbe dissolversi e farci precipitare a centinaia di migliaia ogni anno nel vuoto.
Negli Stati Uniti si sono registrati nel 2023 oltre 110mila morti per overdose, 23.760 suicidi e 18.507 omicidi. In Italia nello stesso anno abbiamo avuto 227 morti per overdose e 334 omicidi, i suicidi non sono censiti ma dovrebbero essere circa quattromila. Perché secondo voi c’è questa abissale distanza tra noi e la società americana? Perché da noi la rete del welfare è stesa e la disperazione che si trasforma in violenza autolesionista è dunque numericamente assai più contenuta. Se togli la rete, il debole precipita. E allora magari un Papa di 88 anni, un famoso politico o un allenatore di calcio si salvano lo stesso ma le moltitudini dei sofferenti vengono lasciate al loro triste destino. Da noi non si costruisce questo piano della diseguaglianza o almeno non ancora, non così tanto come altrove. Salvaguardiamo questo bene prezioso, è un bene assoluto ed è nostro, lottiamo per non farcelo togliere. Continuiamo a difendere luoghi dove puoi essere un nessuno ma sarai curato come un Papa.